La fede non è una fatto personale
Un Dio, una chiesa. Correlazione apparentemente pacifica, eppure sin dalle origini del cristianesimo si sono succeduti scismi, scomuniche, eresie (ovvero una dottrina contraria nel senso di “diversa” rispetto all’ortodossia espressa dal magistero della Chiesa), fondazioni di tante chiese; ed oggi, di fronte agli scandali ed alle prese di posizione provenienti dalla Santa Sede e dai pulpiti, tanti cristiani si riconoscono poco nella Chiesa e preferiscono vivere l’esperienza di fede come un qualcosa di personale. «Dobbiamo ascoltare e comprendere – afferma padre Oreste Fabbrone, cappuccino di stanza a Fossano – le obiezioni che arrivano a mettere in discussione la necessità di essere uniti nella nostra fede in una comunità ecclesiale, per poter rispondere ai dubbi di tante persone e poter riaffermare che la fede è un’esperienza da vivere sia in una dimensione individuale sia in una dimensione comunitaria. Per questo è tanto importante il battesimo, posto all’inizio di un cammino in cui si chiede un impegno maggiore ai genitori ed ai padrini rispetto al battezzato; spesso ci si perde se si cammina da soli».
Il sacerdote piemontese, che lunedì è stato relatore dell’incontro “La fede: un cammino con una comunità, la chiesa”, non aveva un dibattito in discesa da affrontare, tanto più con un conclave alle porte che ha posto all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale le questioni aperte della pedofilia e degli abusi sessuali di cui si sono resi protagonisti sacerdoti di tutto il mondo, fatti che spingono più ad abbandonare la barca che a restare a bordo. «Gesù stesso – spiega con calma frate Fabbrone – ci invita ad una fede che sia ecclesiale, della comunità, e non chiusa nell’individualismo. Anzi, la fede individualistica non è affatto fede perché Gesù ci invita a credere nel mondo, non a chiudere ad esso la porta. In Matteo 18 il Vangelo elenca le caratteristiche che ogni cristiano dovrebbe avere per vivere la propria fede in maniera ecclesiale: perdono, aiuto reciproco, correzione fraterna, senza scannarci a vicenda». Utile richiamare anche quello che «Sant’Agostino diceva ai suoi battezzandi: “la professione di fede che avete ricevuto e ripetuto dovrete testimoniarla, condividerla”. Questo è il credo ecclesiale».
La dimensione comunitaria si rivela perciò anche nell’impegno della testimonianza, richiamato da Benedetto XVI nel motu proprio con cui ha bandito l’anno della Fede, nel quale si elencano esempi di testimonianza nella fede. «Sarà decisivo – scriveva l’11 ottobre del 2011 quello che da poco più di una settimana è il pontefice emerito – nel corso di questo Anno ripercorrere la storia della nostra fede, la quale vede il mistero insondabile dell’intreccio tra santità e peccato. Mentre la prima evidenzia il grande apporto che uomini e donne hanno offerto alla crescita ed allo sviluppo della comunità con la testimonianza della loro vita, il secondo deve provocare in ognuno una sincera e permanente opera di conversione per sperimentare la misericordia del Padre che a tutti va incontro». In questo senso modelli sono Gesù «colui che dà origine alla Fede e la porta a compimento (Eb 12,2)», Maria che accetta di diventare Madre di Dio, gli apostoli che «lasciarono ogni cosa per seguire il Maestro», i discepoli che «formarono la prima comunità… mettendo in comune quanto possedevano», i martiri che «per fede donarono la loro vita», uomini e donne che hanno consacrato la vita a Cristo «per vivere in semplicità evangelica l’obbedienza, la povertà e la castità», uomini e donne che hanno testimoniato la propria fede «nella famiglia, nella professione, nella vita pubblica, nell’esercizio dei carismi e ministeri ai quali furono chiamati», ma anche «per vede viviamo anche noi: per il riconoscimento vivo del Signore Gesù, presente nella nostra esistenza e nella nostra storia».
Da questi esempi, intesi alla latina come immagini a cui guardarne per trarne insegnamenti e comportamenti esemplari, potrebbe partire la ricostruzione della chiesa. «Vorrei ricordare – sembra confermare padre Fabbrone – un sacerdote di Fossano, don Pino Pellegrino, ed in particolare un suo testo in cui scrive che la chiesa in cui crede non gioca in difesa, ma all’attacco, propositiva; una chiesa capace di recitare il “Magnificat” e il “Miserere”, una chiesa delle “4p: preghiera, perdono, parola, professione”, una chiesa come il nido dei pettirossi, fatta non solo di cose belle, ma anche di cose brutte e di peccatori, capace comunque di contenere e preservare la vita, una chiesa da intendere come costruzione reale e non ideale. Per usare una metafora calcistica, una squadra, nella quale ultimamente sembrano mancare i centromediani». O i muratori, o i mattoni, perché se è vero che “la pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo”, una pietra da sola non può di certo diventare un edificio.