Nel nome di Dio
Il nome è sacro. Il nome è legato in maniera inscindibile alla coscienza di sé, anche per questo nei campi di concentramento ai prigionieri era assegnato appena giunti un numero, «considerate se questa è una donna, senza capelli e senza nome». Cancellare il nome, per dissolvere anche l’identità; «il mio nome è 174 517; siamo stati battezzati, porteremo finché vivremo il marchio tatuato sul braccio sinistro… pare che questa sia l’iniziazione vera e propria». Ma Dio ha un nome?
A questa domanda ha tentato di rispondere frate Roberto Zappa, guardiano del convento di Novara, nell’incontro di lunedì sera al Gifra. Dio di per sé stesso non sarebbe che un sostantivo generico cui è stata aggiunta una maiuscola per conferirgli una certa gravità nel passaggio dal politeismo al monoteismo, eppure è il nome con cui siamo soliti pensare a… Dio, appunto. E Signore, Domineddio, Padre, non fanno di certo differenza. «Almeno nelle grandi religioni monoteiste – spiega frate Zappa – Dio non possiede un nome proprio, diversamente dalle religioni pagane, perché nella mentalità magica antica conoscere il nome del dio vuol dire controllarlo, questo è tipico di ogni religione pagana. Ma il nome di Dio non lo abbiamo, quindi non possiamo controllarlo o afferrarlo, Dio è sovrano nella sua trascendenza ed è innominabile, inafferrabile».
Tuttavia l’Antico Testamento racconta che Dio ad un certo punto decise di rivelare il proprio nome agli ebrei; è l’episodio del roveto ardente, in cui Mosè riceve dal Signore il dono del proprio nome: “io sono colui che sono”. «Questo testo è straordinariamente interessante – commenta padre Zappa – qui Dio cosa rivela? Quale è questo nome? In realtà rivela il famoso tetragramma, che noi rendiamo con l’espressione Jahve, in realtà una parola impronunciabile, che gli ebrei sostituiscono nella pronuncia con Adonai, “il signore”. È un nome che non è un nome, avete visto come viene tradotto, è un’affermazione di sé tautologica, l’affermazione dell’essere per eccellenza. Alcuni teologi colgono un riflesso relazionale, “io sono colui che ti farà essere”, “sono colui che è per te”. In questo brano in cui si rivela il nome di Dio si fa anche riferimento agli antenati, ad Abramo, Isacco e Giacobbe, e questo è ripetuto sia all’inizio sia alla fine della rivelazione. Quale è il nome di Dio? Il tetragramma o questo secondo? In realtà dice molto più di Dio rispetto al primo, specifica il suo nome generico mettendoci dentro il nome particolare di personaggi storici, come se si lasciasse coinvolgere dal nome e dalla vicenda storica di altri e facesse sì che il nome di altri partecipasse della sua identità». Il nome di altri, il nome di ogni uomo e non dei soli santi e profeti. «Vale per noi, nella misura della nostra fede siamo parte del volto e del nome di Dio, che accetta di condividere la mia storia e tutta la limitazione che questo comporta… Ma i casi sono due: o Abramo, Isacco e Giacobbe sono morti e allora Dio definendosi con loro è morto con loro, oppure Dio è dei viventi e “tutti vivono per lui”, come aggiunge l’evangelista Luca. Se Dio non è morto per definizione allora anche loro sono vivi, Dio è stato partecipe della loro vita e in un mirabile scambio li ha resi partecipi della sua vita eterna. Lascia che i credenti in lui gli prestino un nome nella storia, Erich Fromm arriva a tradurre il tetragramma come “io sono colui che tu farai essere”». Ma se il nome che noi diamo a Dio, nella nostra imperfezione, non è che «un balbettio», in Gesù «giunge il Verbo, il nome, che si fa carne. Interviene una fede giunta alla sua perfezione, la fede di Gesù, in grado di nominare Dio, anzi aggiunge un nome a Dio: Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e di Gesù, con la novità che Gesù non è solo uomo, ma egli stesso Dio, cosicché l’unico nome proprio di Dio che conosciamo è Gesù, allo stesso tempo esempio di fede da cui siamo imparati ad imparare. Nel vangelo di Marco, capitolo 9, Gesù guarisce un ragazzo epilettico, a stupire è la preghiera del padre di questo giovane a Gesù, la più bella preghiera sulla fede: “io credo, ma tu aiutami nella mia incredulità”».