La difficile simpatia della sofferenza
L’ascolto più difficile, “l’ascolto della sofferenza”. Difficile perché richiede di aver sofferto a propria volta, difficile perché implica una capacità simpatetica profonda. «Il dolore è comunicabile, ma necessita di un ascolto attento. Bisogna ascoltare con attenzione quello che è stato “scomunicato”, tolto dalla comunicazione perché è qualcosa che non si riesce a dire. Levarsi i sandali e accostarsi al “roveto ardente” sapendo che ad accostarsi ci si brucia un po’; occorre chiedere al Signore la grazia di farci bruciare un po’». Sceglie l’immagine biblica del roveto ardente don Tommaso Groppetti, giovane docente di cristologia al seminario vescovile della diocesi di Novara che ha tenuto il secondo incontro della catechesi sull’ascolto, perché affacciarsi sul dolore di una persona è «entrare in un luogo sacro in cui vi è il passaggio di Dio nella vita di un fratello. L’arcivescovo di Parigi, cardinale Jean Marie Villot, provato da una malattia che lo portò alla morte scrisse: “sappiamo dire belle frasi sulla sofferenza. Io stesso ne ho parlato con calore. Dite ai preti di non parlarne se non per conoscenza diretta; noi ignoriamo ciò che essa rappresenta fino a quando, come è successo a me, non ne piangiamo”».
Un’affermazione sulla quale concordano personaggi illustri di ogni tempo, Dostoevskij, Flaubert, Goethe per citarne tre, e che si ritrova in proverbi e detti ad ogni latitudine del globo, a segnalare la necessità di aver conosciuto il dolore per poter entrare in comunicazione con la sofferenza di qualcun altro. «C’è – spiega don Groppetti – una paura che non è solo quella di me sofferente, ma anche di chi mi conosce e non sa più come accostarsi a me. Non si sa cosa dire e spesso si usano parole che ottengono come risultato di accrescere l’angoscia; capita anche a me, vado a trovare un malato e se provo a usare parole mie di conforto è un disastro… Resti senza parole. E ringrazio il Signore di lasciarmi senza parole, direi delle sciocchezze, meglio ascoltare».
Ascoltare anche come segno di rispetto per il cammino arduo che la persona sta affrontando, un cammino che don Groppetti ha mostrato dall’interno: «la malattia possiamo pensarla intorno a due poli, spersonalizzazione e personalizzazione. Il dolore quando colpisce tende a spersonalizzarci, ci toglie la capacità di fare ciò che vogliamo e ci costringe a dipendere dagli altri e quest’ultima situazione è tremenda. Dall’altro lato colui che soffre ha la grande possibilità di prender questo buco nero e personalizzarlo, di definirlo come crede, di non farsi distruggere e dotarlo di un senso. La sofferenza rema contro di me se mi arrendo; momento che ci sta, ma dopo il quale ci può essere la reazione». L’invito a reagire e l’attenzione al dolore fisico non sono stati espedienti retorici, ma una prova pratica di ascolto della sofferenza: attraverso aneddoti via via più dettagliati il relatore ha affiancato alla discussione teorica l’esperienza vissuta in prima persona e non conclusa della malattia e della sofferenza. «Di fronte alla sofferenza abbiamo due scelte. Anestetizzare la sofferenza, come quando facciamo morire i nostri malati in ospedale, nascosti da un telo bianco, o come quando la spettacolarizziamo: in tv si vedono morti, bare, ho avuto paura nel vedere persone che guardavano queste immagini senza esserne colpiti. I due grandi maestri filosofici di questa impostazione sono Epicuro se banalizzato come si tende a fare oggi e un altro maestro di spiritualità “venduto” molto male, Buddha. La seconda scelta è quella di Gesù: che cosa dice per noi cristiani? L’episodio del figlio unico morto, raccontato in Luca 7, o quello di Lazzaro mostrano un Gesù che soffre, che ha compassione e che non ha nulla a che fare con l’atarassia buddista». Al di là della valutazione su Epicuro, che non può essere considerato responsabile per la banalizzazione del suo pensiero in realtà distante dall’anestetizzare il dolore, e su Buddha, la cui riflessione sull’atarassia è ben più complessa, il centro è nella figura del Cristo, che «si fa toccare profondamente dalla sofferenza». «Per noi cristiani – conclude don Groppetti – il senso vero della malattia nasce se siamo capaci di metterci all’incrocio tra la nostra umanità, lo Spirito Santo, il nostro modo di vivere la fede, le altre persone che incrociano quello stesso punto. Enzo Bianchi scrive che “si tratta di percepire la spiritualità come evento, non come precettistica da applicare, e il senso della malattia non come già dato, ma come evento che deve essere ricreato sempre di nuovo”. Il nostro cristianesimo era diventato troppo precettistico: stai male allora devi dire una certa preghierina. No, bisogna starci davvero in questo incrocio, capire cosa incrociamo di fronte a questo letto di ospedale, a questa bara. E riscoprire magari il gusto di un piccolo gesto, di una carezza, di tenere la mano di un ammalato. Gesù tocca il lebbroso che non voleva farsi toccare». Perché il dolore parla e chi parla chiede di essere ascoltato.