Il triangolo dell’ascolto
Cosa hanno in comune Samuele, san Francesco, Giovanni Paolo II? Tutti e tre hanno dovuto imparare l’ascolto. Ascolto di Dio, degli altri, dell’io. Sono queste le tre componenti che consentono di mettersi “In ascolto dell’altro”, tema del primo incontro della seconda parte della catechesi del Gifra dedicata proprio all’ascolto. Il relatore don Maurizio Poletti , che è direttore spirituale del seminario vescovile della diocesi di Novara, ha preso spunto dell’esperienza di ascolto di un profeta, di un santo e di un papa per introdurre i presenti alla dimensione dell’ascolto della propria profondità, alla scoperta della propria vocazione.
L’incontro ha preso le mosse dal racconto biblico della chiamata di Dio a Samuele, ancora fanciullo e lungi dall’ungere Davide re di Israele, assopito all’interno del tempio a cui era stato consacrato sin dalla nascita, dono di Dio – sua madre Anna lo aveva ottenuto in tarda età e dopo aver a lungo pregato – e a lui consacrato. Poco distante da Samuele, sempre nel tempio, dormiva Eli, il sommo sacerdote divenuto ormai cieco e metafora di un sacerdozio che non sapeva più comunicare. Dio chiama “Samuele”, una prima volta. “In questa prima chiamata – spiega don Poletti – colpisce la prontezza tipica del giovane e del fanciullo. ‘Eccomi’, non ci sono tante persone nel santuario, pensa sia stato il sommo sacerdote, non è ancora in grado di discernere la voce del Signore”. Dio chiama una seconda volta “Samuele”. “Samuele – continua il sacerdote – in qualche misura dentro al suo cuore, nella sua coscienza, ha il dono di udire la parola di Dio, che non conosce ancora, ma ha bisogno di un’educazione all’ascolto. La seconda volta la reazione è meno immediata, va da Eli e gli chiede se lo ha chiamato”. Dio chiama una terza volta. “Queste tre chiamate – commenta il relatore – non sono tutte uguali, sembrano ripetitive, in realtà c’è un cammino che Samuele è chiamato a fare, il cammino dell’ascolto di Dio. Il Signore ci invita a fare un processo di più ascolti, il giovinetto è invitato ad andare e tornare più volte da Eli, il suo maestro ed educatore. Chi non ha bisogno di un maestro? A tutte le età direi… senza la mediazione del maestro, da soli ci illudiamo e rischiamo di fraintendere, non saper ascoltare, non riconoscendo chi ci parla”. Il sommo sacerdote intuisce cosa sta succedendo e istruisce l’allievo, perché la sua maturazione si compia ed egli sia in grado non solo di sentire, ma anche di ascoltare. Così Dio chiama una quarta volta: “Venne il Signore, stette di nuovo accanto a lui e lo chiamò ancora come le altre volte: ‘Samuele, Samuele!’. Samuele rispose subito: ‘Parla, perché il tuo servo ti ascolta’”. Il Signore si siede accanto e accompagna Samuele una volta che questi ha raggiunto la capacità di ascoltare la voce di Dio attraverso l’ascolto attento di se stesso e dell’altro, il maestro. “Come è importante – commenta don Paoletti – passare da una prima impressione a capire quello che è stato inciso da Dio a chiare lettere dentro al nostro cuore. Da soli non siamo capaci di capire, serve un cammino di discernimento, da soli non potremmo arrivare a cogliere questa profondità”.
Ecco allora che la prima sorpresa ovvero che l’ascolto di se stessi non è una chiusura a tutto ciò che circonda la persona. “Vorrei usare – argomenta don Maurizio – l’immagine del triangolo. Al centro c’è il sé, il lato basso è l’io; è il lato più immediato, che anche Samuele sperimenta dicendo ‘ecco-mi’. Al secondo lato c’è Dio, la Parola, il totalmente altro che non conosciamo se non è lui a venire a rivelarsi, a comunicarsi, una caratteristica della nostra religione, Dio che si rivela in Cristo. Al terzo lato c’è il tu del nostro prossimo, l’altro, il mondo degli altri, l’alterità. L’ascolto di se stessi non è ascolto immediato dell’io, né ascolto immediato di Dio, né l’accoglienza indiscriminata dell’altro: in un’immagine sintetica l’ascolto di se stessi deriva dall’incrociare queste tre dimensioni, come in un triangolo”. Attraverso l’apertura si può far sì che “la libertà non diventi un richiamo per la carne” (Gal 5), superando il rumore e i falsi maestri che impediscono di ascoltare se stessi, guidati dai tre lati del triangolo immaginato da don Paoletti. “Acquisiamo la capacità di ascoltare nel momento in cui le esperienze le abbiamo portate dentro di noi. San Francesco sente il crocifisso che gli parla e quella parola diventa la vocazione alla luce della quale interpretare tutto il suo cammino. ‘Francesco va, ripara la mia casa’. La voce di tanti fratelli e del crocifisso”. I fratelli di cui la Chiesa del tempo non si curava adeguatamente e il crocifisso che aveva perso di vista, come il sacerdote Eli non più capace di vedere.
L’ultimo esempio di voce citato dal direttore spirituale Paoletti si ritrova nella biografia di Wojtyla, che sin da giovane riceveva i consigli di persone che lo vedevano vicino al sacerdozio, ma che preferiva dedicarsi al teatro e alla letteratura, finché durante la seconda guerra mondiale un operaio suo supervisore non riuscì a farsi ascoltare. “Il futuro Giovanni Paolo II lavorava come aiuto brillatore in una fabbrica pirica. Il brillatore gli diceva qualche volta ‘Kharol, tu dovresti fare il prete. Canterai bene, perché hai una bella voce e farai bene. Lo diceva con tutta semplicità, esprimendo così una convinzione abbastanza diffusa della società circa la professione di sacerdote, ma le parole del vecchio operaio mi si sono impresse nella memoria’. Questo uomo innamorato della parola esemplifica il discorso che io ho cercato di spiegare nella teoria; troviamo magari alcune parole che nostri cari hanno iniziato a suggerire all’orecchio, ad imprimere nel cuore, ed attraverso le quali abbiamo iniziato ad ascoltare la parola di Dio, ma se non c’è profondità di ascolto non c’è vocazione”.