Dimentichiamoci, la difficile memoria del perdono
Il perdono come atto creativo. Don Matteo Cerri, parroco di Scaldasole e a lungo parroco di San Pietro Martire, è intervenuto al Gifra per la catechesi del lunedì e ha affrontato un tema difficile come il perdono. «Il tema – ha esordito – racchiude due elementi, perdonare e dimenticare. Il perdono appartiene a una sfera decisamente morale e religiosa, abbiamo trattazioni diffuse, direi profonde in tutta la Bibbia, specie nel Nuovo Testamento. Il dimenticare non è propriamente colto e soprattutto non è spiegato, quasi fosse un atteggiamento troppo umano perché la Bibbia se ne possa occupare».
Un rapporto dialettico
La dimensione del perdono si realizza pienamente solo nella dimenticanza, passaggio tanto importante quanto il momento dello scusare. «Perdono e dimenticanza – ha argomentato don Cerri – sono due momenti successivi e indipendenti? Il perdono appartiene alla sfera superiore dello spirito e il dimenticare a un meccanismo psicologico? Credo che questo fenomeno vada oltre un puro meccanismo psicologico. Anche il dimenticare appartiene all’impegno morale del perdonare. Chi perdona, se ambisce portare il suo gesto di remissione di un’offesa al massimo livello, deve pervenire e raggiungere anche il dimenticare. Chi perdona veramente dimentica». Ma «chi perdona automaticamente dimentica o il dimenticare richiede un ulteriore sforzo? Terza domanda: è più difficile perdonare un’offesa o dimenticare di averla ricevuta?». Secondo il relatore è più impegnativo dimenticare, gesto che indica «un preciso momento di conversione: io mi converto non solo se perdono, ma anche se dimentico. E dimenticare richiede un surplus di perdono».
Nuova creazione
Un sovrappiù che permette all’offeso di andare oltre l’amor proprio e di scegliere l’amore per il prossimo. «In senso biblico – ha spiegato il sacerdote – perdonare vuol dire “fare nuovo l’uomo cui perdono”. Vuol dire rinnovare. Se perdono mi converto, aumento il mio livello di spiritualità e ricreo la fisionomia umana e spirituale dell’offensore. L’offensore con il suo gesto di violenza cade di dignità e di livello perché chi offende perde parte della sua identità umana, che è fatta di un tu e di un io. Io sono effettivamente uomo se accanto a me mantengo un rapporto, esigo addirittura, un tu. Chi si esaurisce nel vivere isolatamente, tagliando rapporti e relazioni, si allontana e allontana da sé il tu. La forza del mio io è confermata e costruita da un tu che mi sta accanto, per questo chi perdona riacquista la sua capacità relazionale con il tu e fa un dono all’io: chi mi ha offeso si è auto-distrutto e si è tolto dal mio orizzonte e io perdonando ne ricostruisco la fisionomia. Sono in grado di consacrare la personalità dell’offensore. Una frase che leggiamo spesso nella liturgia della Parola è “faccio nuove tutte le cose”. Se noi leggiamo questo programma redentivo nella sua ampiezza ci troveremo anche il gesto di chi perdona».
Per questo perdonare è più di cancellare un peccato. «Anche noi sacerdoti – ha argomentato don Cerri – abbiamo impoverito il perdono presentando la Confessione come il cancellare i peccati. E’ troppo poco, il perdono ricrea l’uomo. Non vuol dire solo togliere, altrimenti perdonare vorrebbe dire far finta di niente, dimenticare nel senso di obliare. Mi ha denigrato, mi ha offeso, ci passo sopra. Non è perdonare questo atteggiamento. Perdonare vuol dire ricostruire l’altro, è l’offensore che riceve di più dall’atto di perdono».
L’oggetto del perdono
Ed è fondamentale non dimenticare che a essere perdonato è chi offende, non l’offesa. «Noi perdoniamo un cuore – ha detto il relatore – perché all’origine dell’offesa non c’è solo un atto manesco, ma pure un desiderio. Io perdono un sentimento e la rovina di un rapporto provocata da un altro, ricreo degli affetti. Quella persona mi è stata sempre indifferente, per caso mi ha offeso: mi rimane indifferente come prima la persona? Il perdono dovrebbe avere questa ricchezza ulteriore, una persona quasi non la conoscevo e la sua fisionomia dopo il perdono mi appare con maggiore grandezza e profondità». Perché l’offeso recupera l’offensore alla sua interezza, lo rende di nuovo persona: «Gesù riguardo al perdonare spiega: “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette”. Il sette è un numero simbolico, un numero pieno, immaginate che pienezza può esprimere settanta volte sette. Signore, devo perdonare mio fratello per quella volta che mi ha offeso? Non per quella volta, ma sempre. Non si riferisce alla numerazione dei giorni e delle offese, ma alla completezza della persona che ha offeso. Devi perdonare tutta la persona, nella sua interezza. Sempre è un conteggio numerico, completamente indica la pienezza della personalità dell’offensore. La colpa si può fare sette volte, ma il perdono è da commisurare alla persona, non al fatto.»
Una sfida impossibile?
L’esperienza quotidiana insegna che un perdono capace di dimenticare è impegnativo, costoso, raro. «Anche l’uomo dimentica? Sì. Io e i miei confratelli più di una volta abbiamo conosciuto episodi di infedeltà coniugale rientrati, riassorbiti, perdonati con la dimenticanza. Tutti abbiamo conosciuto delle altezze coniugali di affetto eccezionale, pur avendo avuto notizia che in passato qualche sbandamento c’era stato. Credetemi, non ho trovato nei miei ricordi un episodio così calzante come questo per poter affermare che in certe circostanze anche l’uomo sa perdonare». Senza timore verso quelle colpe che si dimenticano e quei ricordi di offese che non passano: «Quando uno ammaestrato dal gesto di perdono impara a perdonare non ha bisogno di recidività, ma se l’insegnamento non trova sviluppo allora anche il Signore non fa sconti, come nella parabola del “servo spietato”. Vale anche per le nostre colpe. Molte volte diciamo al confessore “mi vergogno di dire sempre le stesse cose”. Ma no, non abbiate timore, non è recidiva, andate a riferire la nostra comune debolezza».