Sul limite
«Non dimenticare ciò che hai trovato, perché se non avessi trovato ora non sentiresti di perdere». Sta tutto in questa frase l’incontro “Dalla perdita alla rassegnazione”, nelle parole con cui frate Michael David, monaco benedettino, sposta lo sguardo sulla morte dall’azione, la perdita, al complemento oggetto, ciò che ho avuto e ho perso. Ed anche se nessuna parola può spiegare il mistero della morte, è un primo passo sulla strada della rassegnazione, intesa non come “arrendersi” alla morte, ma «come dice San Benedetto “assumere la vita”, perché la vita è per sua natura eterna. L’eternità non è essere infiniti, ma la possibilità di continuare la vita nel rapporto con Dio, in un modo che non ci è dato sapere». La via scelta da frate Michael, davanti ad un centinaio di presenti, è ardua, prendere un termine dall’accezione negativa come “rassegnazione” – “disposizione d’animo di chi accetta con sopportazione un dolore,…” – e tentare di trasformare il momento della perdita assoluta nel ricordo di un ritrovamento. «Io – spiega – oso dirlo. Spero, e può darsi che le mie parole possano ferire, qualora mi trovassi a vedere solo chi sto perdendo, che qualcuno abbia il coraggio di dirmi “pensa a quello che hai trovato in quella persona”».
Rassegnarsi alla morte, quella morte che è al centro del concetto stesso di civiltà, tema centrale di ogni cultura e non solo di ogni religione che l’uomo abbia mai prodotto, tanto che «tutti gli antropologi sono concordi nel dire che senza il lutto, un’emozione, non esiste civiltà. L’umanità nasce quando di fronte alla morte di qualcun altro si passa dal pensare “affari suoi” a domandarsi “perché questo?”».
Una risposta, per quanto non esaustiva, frate Michael la rintraccia nella percezione del proprio essere limitati: «Di fronte alla morte di persone care a volte noi diciamo “piuttosto me”. Il nostro amore non è sufficiente a prenderci cura dell’altro e questo ci fa molto male. La morte ed il lutto danno un senso di giustizia alla nostra vita; possiamo amare, prenderci cura, ma non siamo onnipotenti né rispetto alla nostra vita né rispetto a quella degli altri. Questo però ci rasserena anche, ci toglie responsabilità. Già la nascita è una perdita, lo è per il bambino e per la madre, che non può più assicurare la totalità della vita al figlio».
Mortale per non concepirsi come dio, l’uomo dovrebbe accettare la morte solo come promemoria? Michael David risponde a questa domanda non posta citando l’esempio di due figure totalmente diverse, Gesù e Van Gogh. «Noi siamo convinti che Gesù sia venuto sulla terra per morire, ma nei vangeli non è scritto questo, è scritto che Gesù è venuto per mostrare ai nostri cuori una capacità di amore più grande; di solito si ama con più forza quando non si è altrettanto amati, come si sperimenta nell’innamoramento. Gesù sente il rifiuto e dopo la decapitazione di Giovanni si ritira da solo nel deserto, comincia a capire che la via dell’amore passa dalla sua negazione, dalla croce. Non è venuto a fare lo sport della croce, ma ha assunto la follia dell’amore che accetta di perdere le forme a cui è abituato». Van Gogh invece è il pittore, il genio, che gira l’Europa alla ricerca della luce e, quando la trova, afferma che “è troppa”, «lo acceca, lo fa impazzire. Van Gogh nasce un anno dopo la morte del fratello maggiore, che si chiamava Vincent come lui ed ha un nipote con lo stesso nome. Si sente inutile, preso nel mezzo tra ciò che non è più e ciò che ancora deve crescere, e di questo non senso della vita trae il senso della sua arte: le scarpe, rappresentate ossessivamente, dicono il logoramento della vita, ma una vita che non si logorasse non sarebbe vissuta».
Scarpe rotte e sporche, macchiate di mille colori diversi. E torna alla mente il sottotitolo dell’incontro, “i colori del lutto”: il nero, colore che annulla tutti gli altri, di cui frate Michael ha parlato all’inizio, ma anche il giallo di Van Gogh, la luce in cui si consuma la vita, il grigio che si pone tra bianco – colore che invera tutti gli altri – e l’antonimo nero, eterna incertezza di cui frate Michael dice «meno male che Dio ci ha lasciato tra la luce e l’oscurità», il verde della speranza, non solo per antonomasia, e così via perché «ognuno di noi ha i suoi colori del lutto». Ed ogni colore, anche il nero, nasce dalla luce. Scrive Camus che “la speranza, al contrario di quanto si crede, equivale alla rassegnazione. E vivere non è rassegnarsi” e dunque nemmeno sperare, forse perché sperare potrebbe essere qualcosa di più, rassegnarsi ad un limite oltre il quale, è vero, finisco io, ma inizia qualcos’altro.