Un solo tipo di famiglia?
Dissento. Prima di addentrarsi nella conferenza di lunedì scorso, tenuta dallo psichiatra Alessandro Meluzzi e avente per tema la famiglia, è opportuna una premessa: chi scrive è in sostanziale e non parziale dissenso con il relatore.
L’argomento principe della serata era, o avrebbe dovuto essere appunto la famiglia, istituzione che lo stesso Meluzzi ha definito «fondamento della società ed in particolare di quella italiana», non a caso indicata dall’articolo 29 della Costituzione «società naturale fondata sul matrimonio», in pratica l’unità base della società stessa. Un mattone basilare ed allo stesso tempo oggetto di una forte trasformazione, in atto da decenni e forse entrata con il passaggio del millennio nella fase di più acuto mutamento, al punto da far apparire questo scostamento più un’involuzione che un’evoluzione. «Il 30% delle coppie sposate – ha detto lo psichiatra Meluzzi – si lascia entro i primi quattro anni di matrimonio, in tutto il 50% delle unioni finisce con una separazione. Il “mater munus”, il “dovere della madre”, è perciò scosso nelle sue fondamenta. Lo stato di famiglia e matrimonio considerati dai punti di vista religioso e sociologico è devastante, nella sapienza del mondo si tratterebbe di prendere atto che il matrimonio è passato di moda, di accettare che non vi sono più realtà assolute. E forse come cristiani arriveremo a questo, alla rassegnazione».
Un’analisi dei sintomi e delle condizioni di salute del malato che scende nel dettaglio e passa dal versante sociologico a quello filosofico e teologico, cercando di sviscerare «la deriva che sta portando l’unione di un uomo e una donna a trasformarsi in una reificazione di quell’agape, di quell’incontro, del mistero di due creature che si uniscono. Ma il matrimonio non può essere ridotto ad un fatto linguistico o culturale, come ha fatto in passato anche una certa trattatistica femminista, arrivando a considerarlo un fenomeno superabile».
Causa della crisi mortale della famiglia secondo Meluzzi sarebbero essenzialmente tre fattori: omosessuali, denatalità, opulenza. Il primo elemento entrerebbe in gioco nello svalutare l’istituzione matrimoniale con l’apertura ad unioni contro natura, il secondo pervertirebbe la funzione originaria del “mater munus” – insita nell’etimologia stessa della parola – ed il terzo porterebbe ad un materialismo esasperato che come esito avrebbe una perenne sensazione di precarietà e di mancanza di risorse materiali, allontanando da legami saldi e dal concepimento. «In buona parte dei paesi europei – ha spiegato Meluzzi – sono stati riconosciuti diritti agli omosessuali, che possono contrarre matrimonio. A breve l’Unione Europea obbligherà anche l’Italia, questa povera penisola posta da Iddio tra l’Europa e l’Africa, a recepire una legge iniqua come quella che mette insieme due creature dello stesso sesso. Se penso poi alla successiva possibilità di adozione per gli omosessuali, dall’iniquo si passa all’abominevole». A prescindere dal fatto che “abominevole” è ciò che è “degno di disprezzo, detestabile” e che “detestabile” è ciò che “è oggetto di odio e riprovazione”, ed è lecito domandarsi se “abominevole” sia un termine del lessico cristiano, ed a prescindere dalla posizione ufficiale del magistero cattolico sulla questione, trattare un tema tanto complesso senza contraddittorio e con parole tanto sprezzanti riferite a qualcosa che è riconosciuto come diritto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, appare al minimo forzato.
Quanto alla denatalità, la tesi di Meluzzi è semplice: «Oggi – ha argomentato – la donna prima vuole studiare, realizzarsi, fare carriera, poi quando è ormai alle porte della menopausa pensa ad un figlio. Il primo fattore di denatalità è l’istruzione femminile. Certo, ora è più libera che in passato e questo è un bene, ma occorre mettere la riflessione sulla libertà accanto a quella sull’amore, sono due facce della stessa medaglia. Si fa anche appello al lavoro, alla mancanza di certezze economiche: prima si viveva nella miseria eppure c’era la miseria. Noi viviamo meglio di come viveva il Re Sole, la nostra opulenza non è paragonabile a quella del più grande sovrano assoluto, che beveva acqua infetta e pativa il freddo in inverno». Argomento noto e classico, quello della transizione demografica, se non fosse che la ricerca storiografica ha messo di recente in discussione questo modello di analisi. Carlo Capra, dicente universitario presso l’Università degli Studi di Milano, nel suo “Storia Moderna” indica come le ricerche su registri parrocchiali e comunali di tutta Europa abbiano messo in luce un quadro della situazione diverso da quello che si era sempre immaginato: ci si sposava tardi, intorno ai 24-26 anni per le donne, erano numerose le famiglie formate da un solo individuo – religiosi, vedovi, scapoli abbondavano – e in media sopravvivevano circa 2-3 figli, ovvero quanto bastava per mantenere inalterato il bilancio demografico. Questo per buona parte del Basso Medioevo e dell’età Moderna, almeno fino a quando la rivoluzione industriale non mutò gli equilibri avviando uno sviluppo che interessasse anche gli strati più umili della società. L’età media del matrimonio in Italia, secondo rilevazioni Istat che arrivano al 2011, è di 31 anni per le donne e di 34 per gli uomini, facendo le dovute proporzioni con l’aspettativa di vita in epoca moderna ed in epoca contemporanea, non si notano sostanziali differenze per quanto riguarda l’età, anche se è vero che la popolazione italiana tende a decrescere in conseguenza del minor numero di figli fatti da ogni coppia, ma tale sviluppo da un lato si lega all’abbattimento della mortalità infantile che rende non necessario avere molti figli, dall’altro è tipico di tutte le società post-industriali e sembra dunque più un fattore insito nel modello di sviluppo e sociale che non una “malattia” a sé stante.
Bisognerebbe prendere in esame la civiltà cosiddetta “occidentale” tout-court e valutarne l’eventuale decadenza. A tal proposito, proprio Meluzzi propone un paragone suggestivo: «I cristiani di oggi sono come quelli delle origini, non vi sono molte differenze. Anche loro si trovavano ad operare in una società corrotta, quella romana del tardo impero, aperta all’adorazione di ogni dio ed in pieno declino. I cristiani erano perseguitati perché ritenuti intolleranti religiosi, ma nonostante le persecuzioni sentivano la necessità dell’eucarestia; altro che dovere della comunione, per loro non poteva esserci giorno senza eucarestia. Con una fede incrollabile e pronta al grido del martirio seppero resistere ed organizzarsi, finché un uomo pratico come Costantino non comprese che per tenere in piedi l’impero avrebbe dovuto poggiarsi sull’unica struttura sociale ancora in piedi in mezzo ad una società liquefatta. La nostra situazione è simile, ma noi siamo pronti al grido del martirio?».