Ascoltare come il buon samaritano
L’ascolto è questione di stile. Con che stile ci accostiamo all’altro e con che stile allo stesso tempo ci accostiamo a noi stessi? La catechesi del Gifra riprende riprende con il sacerdote e filosofo novarese Pier Mario Ferrari, che affronta il tema “Fa’ agli altri ciò che vorresti ricevere da loro” e subito pone l’accento sulla inter-soggettività del rapporto tra il sé e l’altro. «Ma l’altro – si chiede Pier Mario Ferrari – chi è? E io chi sono? L’interrogativo è anche biblico “maestro, chi è il mio prossimo?”. La prossimità non è una questione geografica, ma di rapporto con l’altro, un tema che la fede cristiana pone al suo interno con la Trinità: Padre Figlio e Spirito Santo e uno non è l’altro, come fu stabilito in maniera eccezionale nel sinodo di Toledo del 675, che identifica il senso dell’alterità e del rapporto con l’altro: “Alius alius alius, sed non aliud” ovvero altro, altro, altro, ma non un’altra cosa. La linea di confine è sottile, perché il rapporto con l’altro riflette quello con te stesso e il Vangelo lo rimarca dicendo “ama il prossimo tuo come te stesso”».
Tuttavia confrontarsi col prossimo non è un atto pacifico e privo di rischi, perché «come afferma Sartre “l’inferno sono gli altri”: l’altro può diventare la tua realizzazione più alta o il tuo inferno». Da qui l’esigenza di meditare sul rapporto con l’altro e su quello con la propria persona, distinguendo quest’ultima dal semplice individuo. «Dire persona – spiega Ferrari – non significa dire individuo, vivere da persone è diverso rispetto a vivere da individuo. Persone si diventa, è una scelta che si fa nella vita ed è legata al discorso verso l’altro, mentre l’individuo sceglie la chiusura». Il monologo di chi non sa volgersi fuori di sé è la condizione peggiore per l’uomo, una situazione in cui non è possibile nessun ascolto, confronto o rapporto col prossimo di cui scrisse il filosofo francese Emmanuel Mounier, fondatore del personalismo comunitario nella prima parte del Novecento, a cui Ferrari si ispira nella sua lectio. «Scriveva Mounier – legge il sacerdote noverese – “l’individualismo è un sistema di costumi, di sentimenti, di idee, di istituzioni, che organizza l’individuo sulla base di un atteggiamento di isolamento e di difesa, un uomo senza relazioni o legami con la natura, un dio sovrano in seno ad una libertà senza relazione e senza misura, che subito manifesta verso gli altri diffidenza, calcolo, rivendicazione. Esso è l’antitesi stessa del personalismo».
Gli stili dell’ascolto
Personalismo ovvero essere persona in quanto capace di non chiudersi in sé, ma di aprirsi al prossimo, il che per Mounier richiede l’acquisizione di quattro stili che si potrebbero definire dell’ascolto: esistere, comprendere, generare, essere fedeli. «Il primo atto – argomenta Ferrari – è uscire da se stessi, il verbo esistere cosa vuol dire? È un verbo latino, ex-sisto, il tuo “stare” nel mondo ti è stato dato, noi abbiamo ricevuto, ci è stata data la vita e la possiamo ridonare. Lo stesso prefisso di ek-stasis, uscire da se stessi. Il vero esistere è uscire da sé; vivi si è già vivi nel grembo materno, ma si esiste dopo. Il vero atto anti-narcisistico è l’esistenza perché le esistenze narcisistiche non sono dis-ponibili, sono incapaci di “porsi” al di fuori di se stesse». Il secondo stile è invece comprendere, sviluppare un’empatia che non sia pura condivisione intellettuale, ma la capacità di farsi carico dell’altro chiedendosi di cosa abbia bisogno, ascoltandolo e mettendo a tacere un attimo la voce onnipresente dell’ io. Se si esiste e si comprende allora è possibile generare, terza dimensione dell’ascolto: «Il terzo stile è assumere, dare. Generosità d’essere, una sovrabbondanza generosa dove generoso etimologicamente è legato a generare, è ciò che genera qualcosa di nuovo attraverso un atto e una dimensione sovrabbondante; essere generosi è insieme costruire se stessi e cogliere possibilità di generare negli altri. Basta pensare alla differenza tra generare un figlio e fare un figlio, la generazione contro la fabbricazione».
Infine la fedeltà. «Continuità e permanenza – afferma Ferrari – non nel senso della ripetizione e della monotonia. Non si parla di ripetizioni stanche: la fedeltà è creativa, devi sempre riprendere ciò che hai scelto, riscegliere l’originale della scelta, non ripeterlo nella monotonia di ogni giorno. “L’uomo è colui che realizza le promesse del fanciullo”: in questa costruzione di se stessi l’essere fedeli all’altro non è ripetizione identica, ma la fatica di riscegliere. Levinas – Emmanuel, filosofo del Novecento di origini lituane – scrive che occorre “cogliere il volto e non la faccia dell’altro”. Il volto non è la fisiognomica facciale: le facce son le solite, i volti no. Lo straniero non ha ancora volto, la generosità è arrivare al chiunque. Certamente c’è la possibilità dello scacco, c’è sempre negli altri qualcosa che sfugge anche al nostro più volenteroso sforzo di comunicazione. La nostra esistenza non è priva di una sorta di irriducibile opacità. Rapportarsi col prossimo è un duplice movimento, verso te e verso l’altro, estroversione e introversione, l’essere con se stessi è in funzione di poter stare verso l’altro così come uscire verso l’altro è rientrare in se stessi. Ecco il grande tema di Agostino di entrare in se stessi».
Deus caritas est
Il rapporto col prossimo si instaura perciò sul personalismo e sugli stili dell’ascolto, da un lato sulla capacità di aprirsi all’altro e dall’altro lato su quella di istituirvi una relazione onesta che a livello evangelico trovano piena corrispondenza nella carità e nella verità. «Il metodo della verità – dice Ferrari – che trova nella carità la sua regola. Sono due contenuti: verità e amore, cioè carità). La carità nella sua verità non consiste in una serie di scomposte effusioni, che sono spesso una traccia di opacità, perché spesso si tenta di divorare l’essere amato in nome dell’amore. Quante volte si finisce col divorare l’essere amato in nome dell’amore. “L’ho uccisa per amore”, che razza di sillogismo, ecco la verità dell’amore messa dove non c’è. Su questo Benedetto XVI aveva ragione: “caritas in veritate e veritas in caritate”. Perché “Deus caritas est” non habet». Dio è carità, non ha carità, anzi Dio caritas habet quia caritas est Dio ha carità perché è carità.
Zarathustra, del buon samaritano
Un’unione quella di carità e amore che vale nel rapporto con ogni prossimo, dalle persone amate a quelle più lontane, che sono il prossimo per antonomasia verso le quali si compie il comandamento evangelico “ama il prossimo tuo come te stesso”. «Il prossimo – si avvia a conclusione il sacerdote – è di preferenza quello più lontano, il samaritano, l’impensato, colui che non pensi di incontrare. Nella parabola una legge sembra essere più forte della carità: la legge chiedeva di non contaminarsi con il sangue di nessuno mentre ci si recava ad offrire sacrificio. Il sacerdote scavalca, senza toccare, e così il levita. Nella sacca avevano olio e vino per il culto perché stavano andando verso Gerico; anche il samaritano aveva olio e vino: chi ha compiuto il vero atto di culto? Chi ha reso gloria a Dio? Olio e vino erano nella sacca di tutti».
In conclusione non è nell’ascolto di chi è più vicino, condizione necessaria ma non sufficiente, che si compie pienamente l’ascolto cristiano, bensì in quello di chi è più lontano. «In “Così parlò Zarathustra” – conclude Pier Mario Ferrari – Nietzsche pone un paragrafo dal titolo “dell’amore del prossimo” in cui Zarathustra afferma: “Io non vi insegno ad amare il prossimo, ma il più lontano”». Amare il più lontano è perdersi, uscire da se stessi perché come scrive Mounier parafrasando Agostino, “la persona non si ritrova che perdendosi, la sua ricchezza è quanto le resta quando è spogliata di ogni avere, quanto le resta nell’ora della morte”.
NdA: Il passaggio dello Zarathustra è più articolato e complesso, si rimanda a http://www.sirigu.it/nietzsche/zarathustra/amore.htm